martedì 29 marzo 2022

Pazzia!

 

Totalmente d'accordo con il Papa a definire una pazzia l'idea di aumentare le spese militari.


Ora aggiungo una piccola nota immaginandomi un liberale-liberista. Non lo sono, ma ritengo utile le obiezioni che possono emergere da tale punto di vista.

Ho letto molti articoli contro i finanziamenti a pioggia. Sono totalmente d'accordo che ad un incremento del capitale investito non necessariamente corrisponde un miglioramento delle prestazioni della filiera produttiva.

Il mercato delle armi – belliche, non le pistole dei gioiellieri – ha due particolarità:

  1. A differenza del mercato dell'auto, dell'abbigliamento ecc... i potenziali compratori non sono milioni di individui, ma alcune decine di “entità”.

  2. I decisori dell'acquisto non sono gli utilizzatori finali, ma delle posizioni apicali rispetto agli utilizzatori.

Cosa implica questo? Che in questo mercato non esiste quella selezione darwiniana che porterà a fare emergere il prodotto con miglior rapporto prezzo/prestazioni.

Mi si obietterà che questa “selezione darwiniana del libero mercato” è teorica. Vero, ci sono di mezzo i persuasori occulti, le tecniche di delivery, le mode del momento, ed altri elementi che creano un ambiente tale per cui il migliore non è il migliore in assoluto, ma il più adatto a quell'ambiente.

Con tutto ciò, un ambiente con pochi decisori, che appartengono alle burocrazie statali, come può avvenire questa “selezione darwiniana”?  Non avviene.

Il deliziare il cliente che predicano i guru del marketing, pur senza ipotizzare reati di tangenti, si realizzerà in “aumento delle spese di rappresentanza”. Questo 2% andrà parte in questo, parte nelle tasche di top-manager di aziende del settore, parte in lavoratori già anche troppo tutelati, in parte disperso nei rivoli in cui si disperdono i soldi pubblici.

Sarbebbe stato più sensato partire con analizzare le debolezze dei nostri sistemi (es. attacchi ai sistemi informtici e delle telecominicazione) ipotizzare livelli di sicurezza, calcolare i costi per colmare il "gap" e vedere se sta nel 2%, ovviamente tenendo conto degli art 11 e 52.

 

giovedì 3 febbraio 2022

Guerra e Pace


 Il periodo di Covid asintomatico, mi ha costretto a terminare la lettura di Guerra e Pace che avevo scaricato sullo smarphone.

Seguono alcuni commenti

La piacevolezza di un libro in lingua straniera, dipende molto dalla capacità del traduttore. La versione di Guerra e Pace che ho letto, l'ho scaricata da “liber-liber” - quindi “gratis”- aveva una traduzione pessima: oltre ad arcaismi e toscanismi che appesantivano la scorrevolezza il  traduttore aveva avuto pure la cattiva idea di italianizzare i nomi dei personaggi: saltavano i patronimici, la flessione del cognome per le donne, e soprattutto venivano orrori come “Melaniuccia” “Demetriuccio”....

Ho notato una notevole comicità nel romanzo. La descrizione di tutti i nobili spiantati che ronzavano intorno al capezzale di uno dei pochi nobili che i soldi li aveva veramente - tanti - e stava morendo; i dialoghi dei nobili nei “salotti” degni de “La cantatrice calva” di Ionesco; le dichiarazioni di patriottismo nei momenti salienti e poi il ritorno alla banalità; i discorsi degli alti ufficiali e politici (che ricordano molto cose già sentite in certe situazioni lavorative!). Comica è la situazione di Boris Drubetskoy che frequentava, ma non era molto convinto, una ricca ereditiera un po' strana: sapendo che stava per arrivare a Mosca Kuragin, reputato un cacciatore di doti, piuttosto che gli averi della fanciulla possano andare a lui, scioglie ogni riserva e la sposa. Il vecchio bizzarro principe Bolkonskj, dopo che i servi hanno spazzato la neve dalla strada, quando ha saputo che sarebbe venuto Kuragin (il padre), fa rimettere la neve sulla strada. Anche certe scene belliche, seppur drammatiche, come la morte di Petja Rostov, hanno una loro “comicità” per la loro irrazionalità e follia. 

Ho trovato molto interessante un tema che piacerebbe ad autori come Niels Pflaeging, Jurgen Appelo, Nassim Taleb, Dario Fabbri e molti altri. L'inconsistenza della figura del “leader” come motore della storia, cioè che le cose avvengano perché un essere “superiore” per qualità intrinseche “decide”, gli altri ubbidiscono e le cose accadono secondo i suoi piani, a meno che si trovi di fronte ad un leader più forte di lui. T. smonta, con il suo narrare, questa supestizione. Si lancia in una digressione bellissima sulla struttura, che noi chiameremmo ad albero, dell'esercito e la sua inadeguatezza a gestire un sistema complesso come una battaglia, dove avvengono tanti piccoli episodi scorrelati tra loro (a quei tempi non esisteva nemmeno la radio) ma la somma di questi porta l'esito, ignoto ai “capi” che si illudono di coordinare e dare ordini.

A Tolstoj stava evidentemente simpatico il generale Kutuzov: lo descrive come un uomo pieno di realismo e lealtà.

Cosa non mi è piaciuto:

1) Ha perso troppo tempo nel cercare di descrivere sensazioni e pensieri interiori dei suoi personaggi.

2) Non mi è piaciuto il finale, perché l'ho trovato troppo prolisso. I due matrimoni, tra i pochi che non sono morti, cioè tra Pierre Bezuchov e Natasha Rostova e tra Nikolaj Rostov e Mar'ja Bolkonskaja potevano essere citati senza perderci troppe pagine. Analogamente per la seconda parte dell'epilogo: tutta l'analisi che fa Tolstoj sul senso della storia, emerge già chiaramente dal romanzo. Poteva magari sottolinearle fra le righe . comunque lo ha fatto - senza scrivere un saggio filosofico che non aggiunge nulla

 

 

lunedì 3 gennaio 2022

Facendo pulizia... ho ritrovato

 Facendo pulizia tra le vecchie mail ho trovato un testo che avevo inviato ad un giornalista che allora collaborava con Mario Calabresi affinchè glielo facesse gentilmente pervenire. Di Calabresi avevo sentito un intervento ad una conferenza che in quel momento mi aveva profondamente offeso. roppNon sto a dettagliare il contesto. La conferenza risale al dicembre 2011 quando la ditta per cui lavoravo (Teoresi) aveva deciso di licenziarmi perchè "troppo vecchio". Quando invia quella letter a avevo trovato un'altra occupazione, non molto remunerativa, ma molto più innovativa di quello che faceva Teoresi. Non sto ad aggiungere spiegazioni, ma copio tale e quale con una piccola variazione ad una frase 

Egregio Direttore,

La sera dell'incontro sulla crisi io ero particolarmente teso perché nel pomeriggio avevo la certezza che da lì a pochi giorni, nonostante l'articolo 18, sarei stato licenziato. Per una certa igiene mentale non volevo rinvangare il passato, macerandomi sulle responsabilità altrui nelle mie attuali difficoltà, ma cercavo di guardare il futuro.

Invece il suo intervento quasi mi ha costretto a rinvangare passato e colpe altrui. Il suo giudizio è che non abbiamo conosciuto la fame. La mia storia è in senso completamente contrario.

Era il 1975, ero un ragazzo impacciato ma abbastanza sveglio e pieno di idee. Era l'anno dell'esame di maturità. Per il futuro ero attratto da psicologia, (il funzionamento della mente umana!), ma anche da giurisprudenza, affascinato dall'idea di fare rispettare la legge in quel periodo particolarmente duro.

I miei genitori si opposero durissimamente. Secondo loro dovevo dedicarmi all'informatica, così avrei trovato facilmente lavoro. Io obiettavo che sarei stato disposto ad una vita anche sobria pur di fare delle cose che mi avessero interessato “Tu non hai provato la fame!” era il loro refrain.

Così per evitare una fantomatica fame che avrei affrontato volentieri per realizzare il mio “sogno”, dovetti per forza studiare informatica. Purtroppo ce la feci, a causa anche dei docenti. Erano personaggi abbastanza, oggi diremmo “destrutturati”: geni strampalati di cui era bello vedere la passione per quello che spiegavano ed in oltre avevano un look West-Coast che li rendevano ben lontani dalla seriosità accademica o peggio, degli ingegneri! (almeno la maggior parte di loro).

Taglio alcuni particolari, ma quando Lei parlava della gioia del taxista pakistano per la laurea della figlia io pensavo alla gioia dei miei genitori per la mia laurea (il primo laureato della stirpe!) ma pensavo che quella ragazza avesse la tristezza che avevo io quel giorno, pensando a tutte le altre attività più interessanti nella vita possibili a cui si era dovuto rinunciare per quella laurea.

L’impatto con il lavoro fu duro, ma mi permise di stare un po' di tempo negli USA (lontano da casa!) e in URSS (professionalmente ne avrei fatto a meno, ma ho da un punto di vista “culturale” è stato molto interessante).

Ma dal 1994 in poi il settore soprattutto qui in Piemonte è in grave perenne crisi, (taglio l'analisi) così per evitare una ipotetica fame, mi trovo “nelle ristrettezze” e senza aver potuto perseguire i miei sogni.

Quindi il mio primo punto è: bisogna saper non temere troppo la fame, e sopratutto rischiare quando si è ancora giovani.

Secondo, per valutare lo sbaglio dei miei genitori: la logica lineare funziona solo nel breve. Se tiro un elastico e si allunga di 5 cm. Se raddoppio la forza verifico che si allunga di 10cm. Ma se la moltiplico per 1000 non si allunga di 5000cm, ma si spezza. Non possiamo ragionare sempre per induzione dall'esperienza, o meglio l'esperienza va costruita tenendo conto di tutte le cause di un fenomeno. Quello che va bene oggi, non è detto che lo sarà domani.

Ma oggi (che un piccolo lavoro comunque l'ho trovato) qual è il mio “sogno”? Ritorno ad un altro punto controverso del suo intervento: la ragazza ligure-nord'africana [una ragazza studiosissima premiata per il suo profitto]. A quella ragazza avrei chiesto: chi sono i tuoi amici? Perché è vero, se una persona è sensibile, più matura della media della sua età, può anche trovarsi a disagio con dei truzzi, ma deve assolutamente saper interagire anche con loro, magari scoprendo che qualcuno proprio tanto “truzzo” non lo è, se non sotto una scorza apparente.

Un istituto internazionale (Standish Group) monitorizza lo stato dei progetti software e da anni solo il 35% circa vanno a buon fine. Raramente la causa è dovuta ad incompetenza tecnica, più spesso è dovuta a motivi relazionali: specifiche di progetto mal formulate, “il cliente cambia idea”, attriti tra clienti e fornitori....

Inoltre la cose che mi ha sempre fatto più soffrire in questi anni di lavoro è l'esistenza del management. Vale a dire: nel cantiere edile il manovale svolge un lavoro tutto sommato semplice, il muratore più complicato, il capomastro deve avere più esperienza e poi il geometra, fino all'architetto. Nell'informatica no: il lavoro anche più a contatto con la “materia” richiede competenze alte, e la gerarchia non ha senso, il livello culturale è alto in tutte le funzioni; sebbene molte aziende informatiche abbiano implementato un modello ad albero dove ai vertici si accede per motivi di look anni 80, amicizie... raramente per competenza. Ma soprattutto le competenze sono “a rapida dissoluzione”, ed è necessario il team per compensare “l'inevitabile ignoranza”.

Nel settore informatico estero questi temi sono sentiti, nel 2001 alcuni “guru” dell'organizzazione si sono riuniti ed hanno elaborato l' “agilemanifesto”a cui si rifanno varie metodologie di lavoro.

Ritorno dunque a quello che è da un lato il mio sogno e da un altro un approccio (non l'unico per carità, non esiste la panacea !) che permetterebbe all'Italia di affrontare meglio la situazione difficile: imparare a lavorare insieme.

Chissà perché in Italia ci sono ottime piccole aziende, artigiani geniali, ma non ci sono più grandi aziende dagli anni 70 (quando il modello piramidale funzionava ancora)? Una delle cause è l'incapacità di collaborare insieme. Ora mi piacerebbe molto diffondere queste metodologie agili, nate nello sviluppo dell'informatica, soprattutto al di fuori del mondo del software. Non ho la giovane età per “rischiare” ma tengo gli occhi bene aperti.

Distinti Saluti

mercoledì 15 dicembre 2021

Sciopero generale o rituale Potlacth ?

 


Ho visto sui social parecchie polemiche sullo sciopero generale proclamato dai CGIL e UIL per il prossimo 16 dicembre

Polemiche del tipo “Ma dopo questa crisi causata dalla pandemia, proprio adesso che c'era una ripresa che senso ha scioperare? E' da irresponsabili!” e per contro “I costi della pandemia non sono stati pagati da tutti in modo equo, quindi occorre lottare ecc..”

Io non entro nel merito del dibattito, ma volevo farmi una domanda sull'utilità dello sciopero generale e se questa forma di lotta, scelta o osteggiata, non sia un sintomo di come la classe dirigente (politica, sindacale, finanziaria ecc...) abbia una visione del lavoro molto lontana dalla realtà.

Per tornare all'idea di David Graeber, la società maschilista ha formulato il concetto di lavoro come produzione (lascio perdere altri dettagli...) mentre il lavoro reale oggi è per lo più manutenzione, con tutti i suoi link di mappa mentale: sorveglianza, cura, pulizia, difesa... ; poi comunicazione in senso lato quindi anche insegnamento, trasporto.... insomma gran parte del lavoro non produce nulla.

Quindi: meno ore di lavoro, meno pezzi prodotti, meno guadagni marginali sul pezzo prodotto, è un'equazione che funziona solo in una piccola percentuale di attività, ma che sono diventate paradigmatiche del lavoro in se.

Prenderei tre esempi per dimostrare l'assurdità dello sciopero generale preannunciato.


Grande Distribuzione Organizzata. Capisco l'utilità di uno sciopero in una particolare catena e “ad oltranza”. Il cliente potrebbe rivolgersi alla concorrenza. Ma nello sciopero generale, siccome la quantità degli acquisti è proporzionale alla disponibilità economica e ai bisogni del cliente, questi farà esattamente gli stessi acquista anticipandoli e/o posticipandoli di qualche giorno. Se ne ottiene che per la catena gli introiti restano costanti, risparmio un giorno di paga ai dipendenti. Per i dipendenti perdo un giorno di paga e lavorerò più stressato un paio di giorni in più.


Scuola. Se quel giorno lì dovevo spiegare i prodotti notevoli, piuttosto che Kant o il quinto canto dell'inferno... non è che quell'argomento salta, ma lo farò lo stesso, ma in meno tempo, quindi con più fatica per me e la classe, e con un giorno di paga in meno.


Trasporto Pubblico Locale. L'ente preposto risparmia carburante/energia elettrica, usura dei mezzi, paga dei lavoratori. E' già passato all'incasso degli abbonamenti, non so bene i contratti con gli inserzionisti ma non credo che l'azienda abbia grosse penali in caso di sciopero, idem i contributi dal comune sono legati da trattative politiche non legate alle ore e Km effettuati... insomma perdono solo i biglietti di corsa semplice. Gli scioperi sono un guadagno per l'ente. Per i dipendenti un giorno di paga in meno.


In tutti i casi: il dipendente che sciopera non riesce ad usare di questo giorno di libertà per le sue commissioni personali perchè “c'è sciopero” anche di chi dovrebbe fornire il servizio.


Sciopero come cerimonia Potlacth


Anni fa avevo sentito dire da un sindacalista che se uno va a sedersi ad una trattativa dopo uno sciopero che ha una grande adesione allora ha più forza contrattuale ecc... Cioè, secondo costoro, lo sciopero è un rituale per cui io mi sacrifico, io butto del mio, dimostrare che sono così convinto di quello che voglio sono capace di sacrificarmi. Anzi, io ti regalo delle mie cose, per dimostrare la mia superiorità nei tuoi confronti... Ma vadano a farsi curare da uno buon psicoanalista, magari Massimo Recalcati!

mercoledì 17 novembre 2021

I migranti salveranno il nostro patrimonio immobiliare?

 

Premetto che la frase “I migranti ci pagheranno le pensioni” non mi piace per due motivi.

  • 1)      Per l’ideologia secondo cui l’utilitarismo supera le ragioni umanitarie.
  • 2)      Che se tutto quello che dagli anni 80 e prima ho versato all’INPS fosse stato investito in fondi, sapendo che non li avrei toccati fino per 40, 30 … anni, be’ penso che  nel 2018 ci sarebbe stato un bel gruzzolo. L’idea che quelli che lavorano “pagano le pensioni ai  vecchi” è un aforisma che nasconde il fatto che i contributi previdenziali non sono stati gestiti in modo corretto.

Veniamo ora al titolo del post.

Come al solito non ho i dati e lancio una sfida a coloro che li hanno per valutare il fenomeno che io posso osservare solo da un punto di vista qualitativo.

La popolazione in Italia diminuisce quindi logicamente dovrebbe diminuire anche la domanda di abitazioni. Di conseguenza, per la legge della domanda e dell'offerta, dovrebbe diminuire il prezzo/valore degli immobili

A questo si aggiungono altri elementi.

In alcuni luoghi, grandi centri, la domanda è più alta per la presenza di opportunità. Ma il recente lockdown che ha mostrato le potenzialità date dalle telecomunicazioni, dovrebbe aver abbassato il divario tra i “luoghi con opportunità” e quelli “abbandonati” (purché abbiano validi sistemi di telecomunicazioni).

Dagli anni 60 in poi andava di moda anche per la piccola borghesia e l’alto proletariato avere la seconda casa come i “signori” di un tempo che andavano “in villa”. Case al mare, case nelle stazioni sciistiche, ma anche quelle che chiamerei case del barbeque  o case con l’orto: case a pochi km dalla grande città, raggiungibili nel fine settimana, dove il piccolo impiegato si divertiva prima a (far) riadattare fienili o restaurare case abbandonate poi dedicarsi ad attività agresti e/o invitare amici al BBQ impossibile da fare nel condominio in città. In molti casi, queste case agresti erano anche vecchie case di abitazione di gente immigrata in città. In alcuni casi rimanevano allo stesso proprietario che le teneva gelosamente pensando alla pensione.

Mi sembra che questo fenomeno delle case del BBQ stia andando in declino per vari motivi.

  •  Alta tassazione sulle seconde case (soprattutto il fisso delle bollette)
  •  meno disponibilità di denaro nella “piccola borghesia – alto proletariato";
  •  pensionamento più avanzato nell’età. Il fenomeno delle case del BBQ era molto legato alla baby pensioni
  •  altri interessi nelle nuove generazioni.

Da cui consegue che ci sono molti “eredi” che vogliono vendere, ben pochi interessati a comprare. conosco purtroppo personalmente il caso due paesi che mi appresto a dettagliare


Di un paese so che alcune case del BBQ sono acquistate da immigrati dal Perù, gente senza grande disponibilità di denaro, ma che per intanto… ma questo paese permette opportunità di lavoro “manuale” e di cura.

 In un altro paese, con meno di 50 residenti, ci sono quattro case in vendita, altre tre vuote, una in comproprietà in cui un comproprietario (io) vorrebbe disfarsene, l’altro no, la considera un tempio confuciano con ritualità cristiana; molte sono  seconde case da BBQ usate “poco” e nonostante ciò, c'è una volpe sta ristrutturando un fienile per farne una casa pensando di viverci quando andrà in pensione.

Orbene, se i migranti venissero da noi legalmente, come i peruviani o slavi, portandosi dei soldi con se, invece di lasciarli ai delinquenti tagliagole, creerebbero una domanda di abitazioni che valorizzerebbe il nostro patrimonio immobiliare. 

I soldi dell’affitto integrerebbero le magre pensioni. Invece i nostri leader ci tolgono le pensioni pagare muri, droni e criminali e dittatori, per impedire che i migranti vengano a pagarci l’affitto o almeno far valere qualcosa le vecchie case.

domenica 24 ottobre 2021

Reddito di cittadinanza: la sfida

In un mio recente post avevo iniziato a spiegare che nel dibattito sul “reddito di cittadinanza” non si  tiene conto della quantità di lavori fittizi che sono a tutti gli effetti forme surrettizie del reddito di cittadinanza.

Raccontavo la mia esperienza presso la FIAT di via Caraglio (a Torino) . Era il 1997 e David Greaber non aveva ancora scritto Bullshit Jobs.

Con questo post lancio una sfida ai vari sociologi, economisti e politici…   insomma a quelli che dovrebbero avere i dati numerici relativi ai fenomeni sociali. 

A quanto ammonta la spesa per  “redditi di cittadinanza”  sostenuta in Italia?  O meglio a quanto ammonta la spesa per tutti i “Bullshit Jobs” e per tutti quei lavori che offrono un servizio sottocosto ad una percentuale della popolazione  molto piccola, che non ha particolari necessità economiche e che l’uso di questo servizio non dà un ritorno al resto della società?

Mettiamo il dito sulla piaga subito pronunciando una parola che fa piangere il portafoglio di ogni contribuente italiano Aliatalia

Secondo un libro di Marco Ponti e Francesco Ramella, le ferrovie non sono da meno. Secondo me il trasporto pubblico locale decongestiona le strade negli orari di punta (provare a muoversi quando c’è sciopero dei mezzi) permette lo spostamento di chi non può permettersi il mezzo privato e in qualche modo valorizza il patrimonio immobiliare, siccome il fatto di essere in una zona ben servita dai mezzi pubblici uno dei fattori che contribuiscono al pregio di un immobile. Ma chi prende il treno per tragitti più lunghi, soprattutto se ad alta velocità, si paga sempre il costo del biglietto? Direi di no. Anche questo è un reddito di cittadinanza.

Abito vicino ad uno Stadio in cui prima del covid si tenevano partite di calcio. Ora riprendono. Vedo la polizia sempre schierata. Le forze dell’ordine sono un costo. Costo che vale la pena pagare, perché l’ordine pubblico va rispettato. Ma quei poliziotti impegnati per sedare eventuali tafferugli tra tifosi, non sarebbe meglio se andassero ad occuparsi della microcriminalità che dilaga per tanti quartieri? O altri compiti più consoni al mantenimento dell’ordine pubblico. Il calcio crea un costo alla società che non lo paga con eventuali tasse sui biglietti e simili.

Parliamo poi del gioco d’azzardo legale? Quanto costa allo stato, soprattutto per i costi sociali che alimenta, e quanto lo stato ricava?

Io non ho i numeri. Lancio solo la sfida!

lunedì 27 settembre 2021

Metodo imposto dall'oggetto. Ma qual è l'oggetto?

 


Ho recentemente terminato la lettura del libro “Ho fatto di tutto per essere felice” di Marco Bardazzi. Racconta la storia di Eugenio “Enzo” Piccinini, un medico di cui è stata aperta la causa di beatificazione. Ma non è un’agiografia o un libro devozionale. Nel descrivere la vita di questo medico, Bardazzi dedica anche molte pagine a raccontare come Enzo fosse teso ad un miglioramento continuo nella sua professione, che lo portava ad un approccio che nel libro viene chiamato “metodo Enzo”.

In questo metodo troviamo: “imparare da chi ne sa di più” e “lavoro in team”. E’ molto interessante il racconto dei viaggi di Enzo in ospedali americani che reputava validi per imparare non solo tecniche mediche, ma anche organizzative, in primis la trasparenza con cui i medici si scambiavano le informazioni. Il lavoro in team non era un “ognuno è responsabile del suo pezzetto”  ma ognuno porta le sue competenze ed il suo punto di vista ad un impegno comune. Tralascio i dettagli e rimando ad una lettura del testo, che in molti passaggi mi ha ricordato molte cose imparate in Agile.

Anch’io - che faccio prima ad elencare i lavori che mi ispirano di meno dell’informatico di quelli che avrei preferito fare - costretto a fare questo mestiere, volevo farlo al meglio. Leggendo il libro, ho avuto un momento di quasi-invidia. Perché lui è riuscito seppur tra fatiche, a realizzare qualcosa di quello che aveva imparato, mentre io sono sempre stato bloccato nelle mie idee innovative che spesso sarebbero state anche vincenti? Una prima risposta è che forse lui era più tenace di me o che lui aveva la fortuna di essere in Emilia, una regione molto “aperta” mentre io vivo nella gretta Torino, che per certi versi è peggio del meridione perché ha gli stessi difetti (forse anche più!) ma pensa di essere nel giusto.

Verso la fine, parlando del suo modo di affrontare il lavoro cita la frase, nota a tutti quello che hanno affrontato il testo: “Il senso religioso” di don Giussani  

 “il metodo è imposto dall’oggetto”. E qui si è accesa una lampadina che ha snebbiato la mia quasi-invidia. Certo, ma allora il problema diventa  “Qual è l’oggetto?”

Qual era l’oggetto del medico Piccinini? Ovviamente la salute del paziente, intesa nel senso ampio di attanzione per la pesona malata: la guarigione quando possibile e quando non era possibile, un accompagnamento verso una fine dignitosatra (cioè non anticipata! ma sorretta dalla trasparenza, cure palliative e dalla vicinanza, quando è possibile anche verso i familiari) .

Qual era l’oggetto dell’informatico Roberto? Che il software funzionasse, cioè non avesse bug, stesse nei tempi di esecuzione… e fosse possibile mantenerlo (cioè codice leggibile). In seconda battuta, ma su questo il discorso sarebbe lungo, utile la risolvere le necessità del “cliente”.  Poi anche che io e coloro che avavamo partecipato al progetto, imparassimo. Anch’io cercavo un metodo che fosse adeguato a questo oggetto, e non capivo gli ostacoli che ho trovato, non sempre, ma in troppe situazioni.

Cosa mi era sfuggito? Qual era l’oggetto dei tanti “morti di fame” e “maschietti viziati” incontrati nel mio percorso lavorativo? Il loro ruolo personale all’interno della struttura aziendale, e il loro metodo (CYA Cover Your Ass) era proprio adeguato al loro oggetto.

A maggior ragione trovo illuminante (anche se non l’ho raccontato nel mio intervento al IAD 19) il commento dell’allora HR manager di Teoresi , alla mia presentazione di Agile Un approccio simile in azienda non può funzionare, tutt’al più nel volontariato.” Infatti l’oggetto del volontariato è il “risultato dell’azione fatta” nell’azienda gerarchica, la tua possibilità di scalare i gradini della gerarchia.

lunedì 16 agosto 2021

Redditi di cittadinanza - Introduzione


In questo periodo, prima che i notiziari e social si dedicassero a notizie più gravi, si era aperta una discussione molto animata sul tema del reddito di cittadinanza. Piccola introduzione:

Nel 1997 circa, dopo anni di lavoro su progetti “chiavi in mano” ebbi la sfortuna di finire in body rental presso la FIAT di via Caraglio / via Issiglio. Ora quegli edifici non esistono più, li hanno abbattuti per farne case ad uso abitativo.

Rimasi nell’azienda che mi aveva mandato lì, solo perché la situazione familiare al contorno era difficile, ma in un contesto diverso avrei detto “O mi cambiate incarico o rassegno le dimissioni” e poi avrei cercato qualcosa in Italia o paesi anglofoni, possibilmente Olanda.

Mi aveva stupito la quantità di tempo sprecato in quel contesto aziendale. Non che fossero fannulloni, ma non concludevano niente per 40 e spesso 50 o più ore settimanali. Non avevo ancora letto “Bullshit Jobs” di David Graeber (lui non lo aveva ancora scritto!) 

Io  avevo classificato tre categorie di nullafacenti più una

I Diluitori

Diluitori perché la loro attività pratica era diluita nel tempo. In una settimana portavano a termine attività che ad una persona normale richiedevano una giornata, max una giornata e mezza. Passavano il tempo in pettegolezzi, riunioni e post-riunioni informali, soprattutto si fermavano a sera fino a tardi o andavano al sabato mattina anche se non si facevano pagare lo straordinario, perché dovevano essere presenti quando “accadevano le cose”. Il loro skill era la dedizione al loro “ramo” nell’albero della gerarchia aziendale che non necessariamente coincideva con l’organigramma ufficiale. Dovevano essere al corrente di dimissioni, assunzioni, promozioni, ristrutturazioni e nuovi progetti che partivano, e loro si attivavano per farne parte, non perché il progetto interessasse: piaceva partecipare ai Kick-off meeting, era un bell’argomento di conversazione per cui pavoneggiarsi. Poi, a progetti avviati, si facevano togliere lasciando le rogne agli altri.

Le bestie da soma

Si beccavano ordini del tipo “per le cinque deve essere pronto XXX e datevi da fare!” Ovviamente era pronto, ma “Ah si boh, vediamo poi domani” e domani “ah non era da fare così, veramente serviva cosà…” Insomma gente che si dava anche da fare, ma per come era organizzata la baracca, quello che facevano non dava risultati adeguati allo sforzo

I Boicottatori

Cioè i capi, quelli che davano gli ordini di cui sopra. Di più: essendo in una struttura meritocratica, cioè basata sul giudizio ad personam, non favorivano il lavoro in team, facendo scoprire tante volte l’acqua calda, creando conflittualità o almeno interrompendo canali di comunicazione tra pari  che avrebbero risolto i problemi "quando erano ancora piccoli"

C’erano poi quelle che io definivo “le mamme" o "donne che lavorano” in cui mi ci mettevo anch’io, poiché se come sesso mi identifico totalmente in quello maschile, come gender, cioè inclinazioni e atteggiamenti che un certo milieu culturale in un certo periodo storico assegna ad un certo sesso, io mi considero più donna. Cercavamo di fare le otto ore giuste, perché a casa ci aspettavano altre incombenze, non un minuto di più, ma in queste ore smaniavamo per completare la to do list delle attività, in modo di aver finito tutto per la sera: ci reandevamo antipatiche.

Mi domandavo che senso avesse per un’azienda che dovrebbe badare agli utili, tenere tanta gente a non realizzare nulla. Ne parlavo con una collega e lei diceva che comunque erano stipendi, quindi famiglie che mangiavano, quindi lavoro per i negozianti ecc… Ma, visto che di fatto la FIAT (al tempo di Romiti) era puntellata dello stato, la stessa cosa poteva ottenersi pagando pensioni a tutti: magari qualcuno nel tempo liberoavrebbe potuto assistere ai vecchi, ai malati terminali o sistemare il verde pubblico spesso degradato ecc..: non è che non ci fosse nulla da fare nel mondo! Perché la società nel suo insieme è disposta a pagare per lavori inutili mentre non ha le risorse per fare quello che serve, anzi quello che serve spesso è fatto dal “volontariato”? (non avevo ancora letto Graeber che ipotizza risposte)

La metafora della buca keynesiana  non mi piaceva. Per pagare uno per scavare buche e un altro per richiuderle, tanto vale pagarli perché facciano nulla, almeno non alzano polvere, non fanno rumore.

Non amo il Reddito di cittadinanza, ma perché, secondo certi commentatori è così grave “sdraiarsi sul divano di casa”e  invece è bene  parlare per ore di Juve e Ferrari, delle corna del ragionier Vattelapesca… purchè nell’opificio?  Il problema è che il valore del lavoro, purtroppo nella società non viene valutato per l’utilità del prodotto realizzato o per il servizio erogato. Allora avevo il sospetto che il primo scopo del lavoro fosse tenere impegnate le masse: come se le elite avessero chissà che coda di paglia e temessero che se la gente avesse più tempo libero chissà quali depravazioni potrebbe compiere.

Sta di fatto che il valore del lavoro nella meritocrazia-individualista di cultura torinese, sta nel sacrificio (bruciare la risorsa tempo nel tempio-azienda): il capo si sentirà nei panni di Dio nel giorno del giudizio e saprà premiare chi avrà sofferto per la dedizione alla cordata inter-aziendale. Mi piacerebbe che costoro si recassero in un ristorante, non gli portassero nulla se non un conto salatissimo da pagare. Ad eventuali rimostranze il cuoco facesse vedere ustioni di olio bollente sugli avambracci, escoriazioni da grattugia sulle mani, dita fasciate per tagli… Ecco ho sofferto tanto, devi pagarmi per questo!

 Ma non è finita qui....

 

domenica 25 luglio 2021

Che cambino mestiere !

  In Italia abbiamo avuto già dei momenti in cui alcune categorie professionali hanno repentinamente cambiato mestiere, buttando l'investimento che avevano fatto nell'approfondimento della loro professionalità.

L'Italia (paese di Enrico Fermi e Ettore Maiorana, tanto per citare qualcuno) nel 1966 raggiunse una produzione di 3,9 miliardi di kWh  di energia elettrica di origine nucleare: era il terzo produttore al mondo. Inutile dire che per i ragazzini più grandicelli di me, quello rappresentava uno sbocco di lavoro futuro. Ma, vuoi per il “caso Ippolito”, vuoi per non so bene cosa, tutto questo know-how si svaporò ben prima di Chernobyl. Anzi, ai tempi dei referendum sul nucleare una delle frasi dei fautori del NO era “Tanto non abbiamo più il know-how necessario e dipenderemmo comunque dall'estero”

Un altro cambio di mestirere lo ricordo benissimo, perchè coinvolto. Negli anni 80 ci fu una terribile fame di persone che operassero nell'informatica. Si buttarono cani e porci: chi si era laureato, magari con tesi su tematiche che avrebbero avuto applicazioni solo più di 20 anni dopo (come chi scrive) o persone che avevano fallito in tutte le altre attività umane, si facevano un corso di COBOL e un posticino lo trovavano. A metà degli anni 90 l'Olivetti scomparve e dall'eccesso di domanda si passò ad un eccesso di offerta, soprattutto in area piemontese. Spesso la selezione darwiniana funzionò al contrario, perchè i più attivi e dinamici lavoravamo in swhouse o freelance ci trovammo fragili come tutele – e il popolino diceva che gli informatici guadagnano tanto – mentre chi si era incollato alla procedura COBOL in Fiat o grosse compagnie, restava al suo posto; anche quando poi dalle procedure COBOL l'azienda fosse passata, per dire a SAP, costoro avevano tutele maggiori.

Molti colleghi cambiarono mestiere, altri regione o nazione, altri, come lo scrivente, modo di lavorare, ma accontentandosi sempre di remunerazioni da bidello e grandi frustrazioni professionali.

Ora, nel contesto della pandemia, sento i grandi problemi degli operatori del turismo e della ristorazione. Non ricordo questa preoccuppazione da parte dei politici e media quando a “cambiare mestiere” erano gli esperti del nucleare e gli informatici.


Premesso che secondo me non esiste una gerarchia nell'importanza dei lavori; premesso che è giusto avere un mix di tutto e non buttarsi sulla monocultura, una domanda la pogno: Per una nazione è più strategico essere all'avanguardia nelle tecnologie emergenti o vivere del voluttuario delle altre nazioni?


Postilla: ho letto dei report della coldiretti che il lockdown con la chiusura dei ristoranti e delle mense aziendali, ha diminuito la richiesta di cibo e vino. Ora, a parte casi di gente caduta in povertà, che comunque l'ultima cosa che taglia è il cibo a costo di servirsi di mense per poveri o del Banco Alimentare e affini, la gente non ha smesso di mangiare. Ne consegue che l'attuale sistema della ristorazione produce scarti, non è ecosostenibile. Mi auguro quindi che i ristoratori almeno cambino il modo di fare il loro mestiere.