domenica 23 settembre 2012

Il grande baratto

Talvolta capita di sentir dire.
"Ah! la generazione dei nostri figli sarà la prima che vedrà diminuire il proprio benessere dopo diverse generazioni in cui era sempre aumentato."
Questo luogo comune, degno di essere citato nelle raccolta che compare ogni tanto su "Il Foglio", nel mio caso è errato, perchè per quanto riguarda le condizioni di vita, io, laureato, sto molto peggio di mio padre, diplomato. Non mi dilungo su questo. Ricordo che una volta, una delle prime che sentii dire questo luogo comune, dissi: "No, io li ritengo più fortunati: non dovranno assecondare le ambizioni piccolo-borghesi dei nostri genitori". Mentre dicevo questo pensavo alla mia situazione personale, non pensavo di dire una cosa molto più seria che ora mi accingo ad analizzare.
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Riferendomi al libro "Intrinsic Motivation at Work" di Kenneth W Thomas, mia lettura estiva, il lavoro della precedente generazione era un lavoro sostanzialmente alienante: una piccola elite di lavoratori (dirigenza)  aveva un visione del business, definiva le attività specifiche in modo dettaglio, le assegnava ai lavoratori il cui compito era quello realizzare quanto previsto minimizzando “l’errore umano”. Questo era una forma di alienazione, ma per molti della generazione torinese negli anni 60 non era un problema. Il lavoro era il sostentamento per “il tempo libero”, che per loro veniva considerata la “vera vita”. Il tempo di questa vera vita era abbastanza alto (considerando anche che sono andati in pensione presto) e le retribuzioni piuttosto consistenti, grazie anche alle lotte sindacali.

Le motivazioni erano del tutto estrinseche, ed anche il maggior impegno sul lavoro era legato a motivazioni estrinseche. Le piramidi aziendali erano lunghissime per permettere tante piccole promozioni. Esisteva una spece di tabella non scritta, ma evidente nella mente del torinese medio, che legava il modello di auto (ovviamente FIAT) al grado aziendale: chi sceglieva un’auto di livello maggiore era considerato uno sbruffone (blagoeur), chi di livello minore un tirchio (rancin).
Così era Torino, ma al di là del folclore locale, questo era il modello dell’occidente industrializzato. Facevano eccezione i professionisti, artisti, artigiani... poca gente.

Oggi la “globalizzazione” ha fatto saltare questo paradigma attaccandolo su due fronti.
  • Primo: la sostenibilità economica che è sotto gli occhi di tutti (ma ci torno).
  • Secondo: la complessità, su cui vorrei soffermarmi.
E’ sempre più difficile che un “capo” riesca a pianificare, dettagliare, specificare tutte le operazioni, e questo non solo nei contesti dove vi sono tecnologie in continua evoluzione e “germinazione” per cui chi non è operativo (capo) tende ad essere obsoleto (es: informatica) Questo vale anche per contesti meno “colti”. Immaginiamo la commessa del centro comerciale: non si può avere un tabellario a con le risposte da dare alle possibili domande dei clienti, moltiplicate per il loro stato d’animo, contesto culturale... eppure la sensazione che la commessa ti consideri, vale più di una scheda punti per fidelizzare il cliente!
I “posti di lavoro” di questo genere, a tutti i livelli, stanno diventando maggioritari rispetto ai posti di lavoro “fordisti”.
Il lavoratore quindi deve essere orientato, piuttosto che da una se di operazioni da svolgere, da degli scopi da raggiungere: la sua cultura, quella dei colleghi, le best-pratices... determinano le azioni. Le capacità non saranno solo più quelle di applicarsi alle attività che qualcun'altro ha definito, ma anche “scegliere” le attività che avvicinano allo scopo pre-definito.

Il grande baratto  di cui parlavo nel titolo sarebbe mettere insieme queste due sfide per (ah! che frase trita!) trasformare il problema in opportunità.


Ora nel modello “fordista” o, per dirla con Kenneth W.Thomas della compliance era c’erano solo motivazioni estrinseche. Queste producono un’escalation: 
Il giorno X ti compravi la 500 vedevi questo fatto come un dato positivo (motivazione estrinseca data dal lavoro). Se dopo un po’ di tempo, tu non avessi potuto ricomprarla, vedevi la mancanza dell’auto come una negatività; cambiarla con un’altra uguale non ti avrebbe dato lo stesso senso di positività di quando l’avevi presa la prima volta, ma di normalità: per sentire una motivazione positiva, dovevi prenderti almeno un 850! Come nelle dipendenze da droghe o farmaci, che non solo si deve prendere la dose giornaliera, ma aumentare sempre la dose.

Questa “escalation” ha generato:
  • Il cosiddetto consumismo, strettamente correlato con una società delle motivazioni estrinseche.
  • la superstizione del progresso o sviluppo o crescita, dipende dagli autori, e la credenza che le generazioni future dovrebbero “stare meglio” delle passate.
Quando Serge Latouche (personaggio di cui non condivido il pensiero, ma di cui alcuni spunti non dovrebbero essere sottovalutati) parla di una decrescita felice ho molti dubbi.
Ma se si passasse ad un paradigma di motivazioni intriseche, la "felicità" sarebbe possibile anche in assenza di un escalation consumista. Escalation che nel tempo si è dimostrata non sostenibile.

Obiezione: ma senza consumismo non ci sarebbe crescita quindi neanche lavoro quindi neanche motivazioni intrinseche. Contro-obiezione: la crescita potrebbe benissimo essere non-consumista: meglio avere uno screening preventivo sulla salute, meglio avere cure adeguate, meglio poter conoscere lingue, fare sport... che comprare l'ultimo modello dell'ultimo gadget di moda?



martedì 28 agosto 2012

Agile senza saperlo 10 - Stefano I re d'Ungheria

Parecchi anni fa avevo letto una citazione di Stefano d'Ungheria che mi piacque molto. Cercai il libro da cui era stata tratta e dopo un discreta ricerca lo trovai: un libro piccolo, ma in latino con traduzione italiana a fronte.
Non avevo ancora vissuto la sgradevole esperienza in T***, che "per trattar del ben che vi trovai" mi diede, per reazione, l'interesse per l'approccio agile, da cui la lettura di Management 3.0... forse era un presentimento... ma veniamo a Stefano.
Stefano era un capo tribù dei magiari che intorno all'anno 1000 capì che se volevano sopravvivere avrebbero dovuto organizzarsi in uno stato, come erano organizzati gli stati del XI secolo. Il testo è una serie di consigli che Stefano impartisce al figlio Imre, immaginando che sarebbe stato il suo successore. Non fu così, ma per noi ora non ha importanza.
I consigli sono soprattutto legati al rapporto con la Chiesa. Stefano faceva grandi dichiarazioni di rispetto, ma  è evidente che desiderava strumentalizzare l' unica altra oraganizzazione sul suo territorio, capace di raggiungere il popolo, renderlo più civile etc. Oggi questi consigli sarebbero inaccettabili sia per un laico sia per la Chiesa stessa. Ma come dice il  manifesto della complessità in Management 3.0 "Solutions depend on the problem’s context" e "Each strange solution is the best one somewhere" in quel contesto quel deficit di separazione tra stato e chiesa poteva essere utile, tant'è che la Chiesa ricorda Stefano come Santo.
C'è però un punto che mi piace moltissimo e sento una grande affinità con Management 3.0. In Management 3.0 si ricorda che nell'alveare le api quando fa "troppo caldo" battono le ali per raffreddare le arnie. Ma ogni ape è diversa: considera il "troppo caldo" in modo diverso perciò c'è chi comincia prima, chi dopo: grazie a questa diversità la temperatura è ben controllata, senza "scalini" che comprometterebbero la qualità del miele. Segue un più dettagliato esame del valore della diversità in un ambiente lavorativo.
Ma ecco cosa dice Stefano:
La presenza di stranieri e di uomini che vengono da fuori, è di tale vantaggio che merita a ragione di essere annoverata al sesto posto nella dignità regale. L'impero di Roma crebbe ed i re Romani divennero illustri e gloriosi soprattutto perchè a Roma confluirono da diverse regioni molti uomini insigni e sapienti.... Un regno che abbia una sola lingua ed una sola consuetudine di condotta è infermo e fragile...

OK?

mercoledì 1 agosto 2012

Zavorre - Superstizione : lavorare di più.

Superstizione: sono più di 30 anni che nessuno pensa di fare passare un cavallo da li!

Ho intitolato un mio post "Son pà fòl!" perchè avevo notato di aver fatto un post il cui  contenuto sarebbe poi stato ripreso dal Wall Street Journal (mica dalla gazzetta di Vallumida!)
Se avessi pubblicato quello che avevo in mente l'avrei potuto ribadire oggi, perchè tramite un commento su linkedin pubblicato da Jurgen Appelo, l'autore di Management 3.0, ho visto un post sull' Harvard Businnes Review (mica il Corriere di Ligosullo!) che esprime un concetto che ho in mente. 
Dice l'articolo che come "ore lavorate" la Grecia supera la Germania. Eppure sappiamo tutti come stanno le economie dei due paesi! L'immagine del mediterraneo sdraiato al sole e il nordico al lavoro è falsa. Il problema è il peso "burocratico" che rende improduttivo il lavoro.
Diceva Tom De Marco, anche se non ricordo bene dove, che il ricorso ordinario allo straordinario è il modo migliore per rendere meno produttiva ogni ora di lavoro.
Invece i nostri "vicerè" che pensano ancora alla "catena di montaggio" in un contesto economico dove pezzo prodotto = pezzo venduto, hanno in mente di aumentare le ore di lavoro.
1) Aumento dell'orario di apertura dei negozi: Solo un cretino va a comprare il latte più volte perchè trova il negozio aperto più spesso. Uno compra quello che gli serve, se ha i soldi per pagarlo. 
Ma su questo tema potrei obiettare che chi ha fatto questa pensata non era uno scemo, persegue lucidamente un fine: tenere di più aperto un negozio vuol dire aumentare i costi. Fare questo in un periodo in cui è difficile accedere al credito vuol dire fare chiudere le piccole realtà per permettere la concentrazione in pochi grandi gruppi. 
2) Sempre qualche "ç@#! ha proposto di togliere qualche festività per fare aumentare il PIL. La cosa è rientrata, ma era assudo che qualcuno l'abbia detta in un contesto diverso che il WC di un'osteria!  Si sa benissimo che picchi di produzione in piccole realtà sono sempre gestiti, mentre vi sono grandi realtà che elemosinano cassa integrazione e altri ammortizzatori sociali! Togliamo le feste per avere più giorni di cassa integrazione!
3) Quello che però è più drammatico è che la squola ha deciso di portare a 60 minuti le ore delle lezioni.
In qualsiasi corso di management o di chi deve parlare in pubblico si dice l'attenzione dopo 20 minuti svanisce... Ricordo uno schetch di Paolo Cevoli, comico ma non cretino, che parlava della tombola del manager: quando un direttore doveva tenere un discorso distribuiva cartelle tipo tombola con il luoghi comuni come "core businnes" "valore aggiunto"... e la gente per stare attenta si segnava quando "uscivano".... Invece i padroni della squola non se ne rendono conto?
Quei 10 minuti si potevano ben recuperare in altro modo! Inoltre così i ragazzi in classe saranno ancor più dirstratti, e a casa non avranno il tempo per studiare!
Che ci sia un disegno lucido come per la chiusura dei piccoli negozi o è solo superstizione?
Accetto ipotesi.

mercoledì 4 luglio 2012

Zavorre: Superstizione: i sacrifici.

Come ho già detto in un mio precedente post, definisco la superstizione nel seguente modo: Un gruppo organizzato, in certo ambiente, impara che alcuni atteggiamenti, azioni, accorgimenti, sono efficaci per fronteggiare certi problemi ed ottenere certi risultati. Il contesto cambia, ma le procedure rimangono in vigore e si rivelano inefficaci quando non dannose. La superstizione è l'intervallo di tempo trascorso dal cambiamento del contesto che inficia l'utilità delle procedure.
Una superstizione che sempre i politici o le classi al potere usano, da che io mi ricordi è "fare sacrifici". Oggi in particolare, questa metafora viene usata molto spesso.
Premesso: come ho anche esplicitato in questo post, e si può evincere dalla lettura di molti altri, io attribuisco una grande importanza al fattore religioso; ritengo che le azioni e gli atteggiamenti della vita pratica siano molto connesse con la propria posizione religiosa. Appunto per questo l' uso di un termine religioso (sacrificio) a sproposito, ha per me un sapore molto sgradevole.
Al tempo del paganesimo per ottenere la prosperità dei campi e la fecondità degli armenti si facevano sacrifici agli dei. Allo stesso modo nell'antica Roma si facevano sacrifici agli dei per la salus della patria.
Ma questo legame politica-sacrificio pensavo che la cultura europea lo avesse definitivamente rigettato nel 426 d.C. Cioè non si esclude che i credenti possano invocare l'aiuto del divino, ma appunto chiederlo, non attuare delle procedure (sacrifici) per fare sì di ottenerlo.
Nel 426 d.C. fu formalizzata l'inutilità dei sacrifici. L'episodio fu l'invasione dei Goti che arrivarono a distruggere Roma. La vecchia classe dirigente pagana, accusava gli "atei" cristiani di aver lasciato perdere l'abitudine di sacrificare agli dei e con questo attirarsi tali sciagure. Sorsero diverse diatribe su questo argomento, in particolare mi piace citare Agostino che risponde in modo razionale a tali obiezioni. In particolare nella "Città di Dio" cap V par 12, analizza l'ascesa di Roma che dipende dalla forma mentis del popolo romano (amore per la propria libertà, desiderio di gloria,...) e non dalla protezione di qualche nume.
Invece oggi si parla ancora di "fare sacrifici" invece di "coltivare le virtù". Più di 1500 anni sprecati?
(II parte)
Non necessariamente. Sarebbe un'idiozia fare il "bilancio della storia" in poche righe di un post, ma sta di fatto che da un po' di tempo sembra essere tornati a prima del 426 d.C.
Ma qual è la differenza tra "fare sacrifici" e "coltivare la virtù" ? Nel fare sacrifici il popolo "delega" ad una casta ristretta (quella sacerdotale, oggi i "tecnici" o "esperti" ) le sue funzioni e si aliena, come se dovesse dipendere da circostanze esterne che non dipendono da lui. Nel coltivare la virtù invece ognuno deve guardare se stesso, capire cosa fa, giocarsi nelle circostanze della vita: la cosa richiederà sicuramente un impegno maggiore, privazioni, fatica (chiamiamoli anche questi, se vogliamo, sacrifici) ma diventa protagonista della sua vita. Insomma, "la libertà è partecipazione"!
Che cosa servirà di più per "uscire dalla crisi"? La risposta mi sembra facile, ma probabilmente la "casta del tempio" in questo periodo è molto potente.


mercoledì 27 giugno 2012

Son pà fòl !

Il 25 gennaio 2011 avevo pubblicato questo post che mi ha permesso di ottenere una copia autografata di Management 3.0
Ora, il 19 giugno 2012 sul sito del Wall Street Journal (mica la gazzetta di vallumida!) trovo questo articolo.

Who's the Boss? There Isn't One 

Son Pà fòl !

giovedì 14 giugno 2012

7 habits of highly shot people

Qualche tempo fa lessi il libro di Steven Covey "7 habits of highly effective people" nella sua traduzione italiana che suona "le 7 regole per avere successo". Già sulla traduzione non letterale del titolo ci sarebbe da fare qualche commento.
Infatti il testo non dà assolutamente le regole per "avere" successo, cioè per prevaricare gli altri, costringere gli altri a fare ciò che vuoi tu; insegna ad "essere" efficaci .
Non sto a recensire il testo, che, proprio perchè è attinente con il titolo originale e non con la traduzione italiana, risulta essere interessante e sostanzialmente condivisibile.
Leggendolo e pensando a persone che potevano essere come quelle ipotizzate da Covey, ho pensato a Giovanni Paolo II ed anche a don Bosco. Di Giovanni Paolo II in particolare ho letto un'intervista del generale Jaruzelski che si diceva colpito non tanto di quello che il Papa dicesse o facesse, ma di come sapesse ascoltare. Mi pare proprio che dicesse "Ho avuto la possibilità di verderlo ascoltare". Ora la capacità di ascoltare è una dote particolarmente importante per Covey.
L'autore cita spesso Gandhi e Sadat . Quest'ultimo come capacità cambio di prospettiva e di arrivare ad un compromesso.
Che cos'hanno in comune queste quattro persone? Gandhi e Sadat morirono in attentati. A Giovanni Paolo II l'attentato fallì per pochissimo e comunque lui rimase ferito. Si racconta che anche a don Bosco prepararono un attentato, ma quel giorno il suo cane Gris, gli abbaiava e ringhiava contro ogni volta che stava per in camminarsi nella direzione dove lo attendevano gli attentatori: lui cambiò programma e l'attentato fallì.
Insomma a seguire le regole di Covey finisce che qualcuno ti sparerà.

mercoledì 30 maggio 2012

Lettera pubblicata il 18 Maggio.


Il 18 Aprile scorso è stata pubblicata su Avvenire una mia lettera in risposta ad un'altra pubblicata da un lettore, che mi aveva lasciato piuttosto perplesso.
Ho chiesto al giornale se potevo pubblicarla sul mio blog, ma non ho avuto risposta. Siccome "chi tace acconsente" la copio. Se poi dal giornale si lamentassero la leverò.


Egregio direttore,
scrivo, con un po' di ritardo, stimolato dalla lettera del signor Luigi nella rubrica scripta manent di venerdì scorso.
Non per polemizzare, ma mi pare che vi siano invece sostanziali affinità tra il lavoro nella PA e nel settore privato.
Innanizitutto il lavoro è risposta ad un bisogno, sia diretto (es. medico che cura) sia indiretto (es. amministrazione dell'ospedale). In caso contrario non ha ragione d'essere.
Non ci possono essere “tutt'altri criteri” per il lavoro dei privati rispetto a quello della PA.
La PA stessa deve spesso rispondere al bisogno di privati, e spesso le Aziende private rispondono  ai bisogni della PA.
Non condivido l'idea che la legalità e la trasparenza siano peculiari della PA. E' finito il tempo della “Milano da bere” e trasparenza e legalità sono sempre più patrimonio delle aziende (che vogliono durare). Sempre più metodologie di Project management rendono “trasparenti” le fasi dei progetti, tendono a coinvolgere gli interessati al progetto (stakeholders), si attendono a precise normative, indipendentemente se i progetti sono eseguiti per la PA o clienti privati.

Per quanto riguarda eventuali disoccupati, noi privati non abbiamo le garanzie dei dipendenti pubblici. Non capisco perchè per un eventuale licenziato PA sarebbe particolarmente dura: è dura per tutti (lo lasci dire ad un licenziato a 55 anni!). Ma questo è dovuto a pregiudizi:
- dei “recruiter” che invece di considerare le differenze culturali un motivo di ricchezza e resilienza per l'azienda, partono con un immagine astratta di impiegato ideale (ancora spesso legata agli anni '80)
 - dei manager, che psicologicamente si sentono a disagio con “inferiori” laureati più anziani.

Ma tornando alla PA, la domanda che mi pongo è: visto che costa, che  “licenziare” genererebbe problemi che non piacciono a nessuno, perchè non la facciamo “rendere”?
Perchè un popolo di artigiani geniali, diventa un popolo di “fannulloni”?
La PA, come purtroppo molte aziende, è strutturata in gerarchie e mansionari, il vecchio modello “comando-controllo”. Modelli che con la pretesa di prevedere ed organizzare tutto, rendono il lavoro individualista, noioso e frustrante (“non c'è cosa più amara dell'alba di un giorno in cui nulla accadrà” diceva il  poeta Pavese)
Ora sarebbe interessante che qualche PA volesse implementare per qualche funzione, un modello mediato dai vari kanban, Scrum, Lean... etc, dimostrandosi in questo più “avanti” di molte aziende private.
La motivazione è una cosa più profonda e personale delle “tecniche” adottate, ma è come per i monasteri: la regola non può sostituire la fede del singolo, ma aiuta a fare sì che si manifesti e si alimenti.
Distinti saluti

A proposito di pubblicazioni, non ho segnato su questo post che è stata pubblicata sulla rivista "il Project Manager" della Franco Angeli,  la mia recensione di Management 3.0
Quella non posso pubblicarla qui, ma almeno ci metto il link

lunedì 14 maggio 2012

Agile senza saperlo 9 - Donne americane anni '50

Quando ero ragazzo lessi "I persuasori occulti" di Vance Packard. Non ho più preso in mano quel testo. Chissà che effetto farebbe oggi?
Ricordo pochissimo ma mi è rimasto impresso un espisodio.
Si racconta che i primi preparati per torte furono un flop commerciale: non ebbero minimamente successo. Le massaie che li compravano una volta non li compravano più e sconsigliavano il loro acquisto, perché le torte non venivano.
La causa è facilmente spiegata. I preparati per torte avevano un'unica busta con un miscuglio già dosato di farina, zucchero, sale, lievito e altri ingredienti. Bastava diluirli nella misura indicata sulla confezione, infornarli e la torta sarebbe venuta. Ma donna americana anni '50 non era d'accordo. Va bene un cibo già preparato per le situazioni di urgenza, quando rincaso più tardi del solito la sera, che belle invezioni sono le scatolette, ma se faccio una torta, cioè un cibo "della festa". allora non ho più l'urgenza e voglio metterci qualcosa di mio.
Le acquirenti di tale prodotto quindi aggiungevano ingredienti, diluivano in modo diverso, inventavano tempi di cottura diversi ... combinando pasticci!
Le ditte produttrici di tali preparati per torte capirono che, anche se per loro era più facile mettere tutto in un unica busta, avrebbero dovuto mettere lievito e farina in buste diverse, magari suggerire possibilità alternative ("potete aggiungere cacao...) e non "chiudendo" più la creatività delle potenziali acquirenti, riuscirono a vendere.

martedì 1 maggio 2012

Zavorre - Manzoni libero !!!

Alla serie dei miei post Agile senza saperlo volevo affiancare Zavorre : casi che esprimono esattamente il contrario.
Sebbene sia convinto che la prima zavorra sia la superstizione, secondo la definizione che ho dato in questo post, e sebbene in questo periodo gli esempi di macro-zavorre non manchino, parto da un erlebins magari di piccolo valore, ma molto significativo.
Mia moglie insegna ed in questo periodo le case editrici mandano ai docenti i campioni dei loro testi sperando che vengano adottati. Ogni anno i testi sono sempre più voluminosi. Ricordo quando ero studente il Disegno storico della letteratura latina di Concetto Marchesi, un libro piccolissimo ma saturo di contenuto. Aveva il record per la densità di contenuti, ma anche gli altri testi quasi erano allo stesso livello.
I libri che porta a casa mia moglie invece,  per me sono soltanto un ingombro in casa e mia moglie dopo un po', per lo più li getta via. Pare un assurdità buttare via testi scolastici, ma realmente non valgono lo spazio che occupano.
Qualche giorno fa ho avuto la malaugurata idea di aprire un'edizione attuale dei "Promessi Sposi". Roba da vomitare!
Non pretendo che fosse l'edizione proposta da don Milani! Ho già scritto un post in cui parlo di come sia bello il romanzo e quanti piani di lettura possa avere, a tal punto che don Milani auspicava una "edizione popolare".
Già da ragazzo vedevo lo iato tra la bellezza del romanzo e la pesantezza della sua "scolasticità" per cui avevo fatto l'acronimo
Ai Lettori E' Simpatico Sebbene Alcuni Nefasti Docenti Resero Odioso:
Monumento Alla Nazione, Zio Ossequiato, Nume Imbalsamato

Ma quell'edizione raggiunge apici impensabili:  è una porcata!
Pochissime le note esplicative dal punto di vista lessicale o di riferimento storico.  In compenso:
- Un riassunto del capitolo che si sta per leggere.
- Una serie di domandine indisponenti alla fine di ogni capitolo.
-Ogni tanto (esempio incipit, scena del duello...) confronti con altri testi, di contesti del tutto diversi che trattano lo stesso argomento con mitragliata di domandine indisponenti sulla differenza tra i testi.
-Mirabilia: lo scopo per cui esiste la squola itagliana: la preparazione alle prove INVALSI !!!

Rimando a tra qualche riga la schifezza somma, ma mi domando: come può una persona affascinarsi alla lettura con un libro così? Non ha lo spazio per "fare suo" quanto legge, perchè la lettura sia un'esperienza!
Magari i ragazzi diventeranno bravissimi a superare i test a risposta chiusa, ma poi diventeranno dei "tecnici", come le nostre attuali "autorità" che si comportano come le autorità milanesi nel cap 28!!

Il peggio di quel testo consite nel fatto che ogni tanto vi sono delle righe sottolineate e al loro fianco il curatore mette un suo commento, un nota-bene che:
1) soffoca la lettura
2) questi nota bene, in modo discreto, dovrebbe farli l'insegnante in base alla sua sensibilità ed al feed-back della classe.
Ricordo un racconto di Starnone che descriveva un prof che aveva deciso di fare le pulci al Manzoni e, arrivato alla bambina di forse nov'anni,  faceva notare che si arrotonda alla decina, quindi Manzoni avrebbe dovuto scrivere o bambina di nov'anni o bambina di forse dieci anni.Quello è un racconto comico, ma era comunque un insegnante con la sua umanità e la sua responsabilità. Qui invece l'insegnante diventa un manovale del testo.
Ecco la zavorra delle zavorre. La "manovalizzazione" del lavoro. Rimando al testo Intrinsic motivation at work per maggiori dettagli. Qui si sta andando nella direzione opposta a quella indicata da Kenneth W. Thomas . Vi sono "decisori" che organizzano il lavoro in modo da togliere ogni margine decisionale a chi deve eseguirlo, e questo non solo nel settore informatico (la grande diffidenza nel confronti dell'approccio agile), ma anche nella scuola. Questa "manovalizzazione" cosa porta se non ad una perdita di motivazione? (non c'è cosa più amara dell'alba di un giorno in cui nulla accadrà etc..)

Mia moglie mi ha detto che - regola non scritta - visto che i Promessi Sposi è scritto in italiano, quindi non ha bisogno di traduzione, va bene qualsiasi edizioni che i ragazzi portino (del nonno, del vicino, dell'hard-discount, rilegata in pelle...) , basta che la portino!!!!

lunedì 9 aprile 2012

L'Italia sprofonderà: il mito della cicala.

Disclaimer: non condivido affatto la visione di Benedetto Croce ed epigoni sulle due culture: la cultura umanistica  e la cultura tecnica. Personalmente amo la scienza, che non è la tecnica: è ricerca della verità. E' adaequatio rei et intellectum, permette alla cultura umanistica di non essere stantia ripetizione di flatus vocis e permette alla tecnica di non scadere nella ripetizione di pratiche che diventano magia o superstizione, come descrive Asimov in un racconto dove erano rimasti i tecnici senza gli scienziati.

Premesso questo, da che mondo e mondo la classe politca viene scelta tra gli "umanisti" perchè capaci di comprendere gli scenari ed immaginarsene nuovi, perchè detentori di una visione filosofica del mondo o anche semplicemente perchè capaci di comunicare. Il fatto di affidarsi ai tecnici per il "salvataggio" dell'Italia mi sembra uno dei tanti sintomi di follia verso cui stiamo andando incontro.
Sono assolutamente favorevole a valorizzare il lavoro delle persone anziane, la mia storia lo dimostra ed ho già fatto un post a questo proposito. Ma ritengo che la "coraggiosa" riforma delle pensioni sia una porcata per vari motivi e qui ed ora cito quello "umanistico"- il mito della cicala.
No, non la favoletta della formica e la cicala, a cui i simpatico Gianni Rodari rispondeva di preferice la cicala/ che il suo canto non vende: regala! - non apro questo ampio dibattito!
Si tratta del tempo degli dei falsi e bugiardi. La ninfa Eos si innamorò di Titone, un mortale. Siccome voleva superare questo piccolo problema, chiese a Zeus il dono dell'immortalià per l'amato. Zeus concesse tale dono, ma la svampita ninfa Eos non si accorse che insieme al dono dell'immortalità avrebbe dovuto anche chiedere il dono dell'eterna giovinezza. Cosa successe? che il povero Titone non moriva mai, ma invecchiava sempre, in modo terribile... in un modo dove un settantenne era vecchio ed un ottuagenario una rarità, chissà come si immaginavano un vecchio di duecento trecento mille anni!!! Una versione del mito dice che Titone fu poi tramutato in cicala. 
I nostri tecnici probabilmente avranno letto da qualche parte che l'età media della vita aumenta, ma forse non sanno che i vecchi non hanno le stesse condizioni fisiche e quidni gli stessi ritmi dei giovani. Parlano di "lavori usuranti" ma chi fa più lo scaricatore di porto? La vista e l'udito calano, e l'artrosi viene anche ad impiegati ed insegnanti (tanto per esemplificare, seppur superficialmente)
 Quanto costerà questa loro astrazione? Be' il fatto che si parli di cicale, per altri versi il simbolo dello sperpero dei beni, è sintomatico dell'impossibilità che avremo di sollavarci.

lunedì 5 marzo 2012

Le inserzioni di lavoro sono "sbagliate".

... mi misi alla ricerca di un lavoro e dovetti quindi affrontare il tema "inserzioni"
Non mi soffermo a dire di quelle che specificano l'età (tipicamente età max 35 anni)  che mi pare siano vietate dalla legge e squalificano l'azienda che le pubblica.
Sono stato invece colpito dal fatto che nel settore informatico è pieno di inserzioni del tipo "esperto Java j2ee ","esperto silverlight per android" e via discorrendo. Orbene il primo punto dell'agile manifesto dice
Individuals and interactions over processes and tools
mentre le inserzioni partono proprio dal tool. D'altra parte in 30 anni di lavoro il tool non è mai stato l'impedimento. In poco tempo lo si imparava facilmente e l'assembler (del PDP11) era ben più difficile di python !!!
Cosa sta dietro a questo approccio (oltre l'ignoranza dell'agile manifesto) ?

(...2 parte) 
Finalmente ho il tempo per completare il post. Rispondo alla domanda: I progetti sono di breve respiro, i budget si approvano tardi, i margini sono scarsi quindi non c'è tempo/denaro per imparare, si deve essere produttivi subito. Il tool si deve "già" conoscere. Questa situazione è un dato di fatto, che però lascia intravvedere una pessima realtà del mondo dell'imprenditoria nel settore informatico. 
L'utilità di essere "azienda", di essere "squadra" è proprio nel 1) completare vicendevolmente le lacune 2) fare fluire meglio le competenze - insegnare/imparare l'uno dall'altro, in modo più rapido di quanto si impari da soli 3) avere la visione per sapere cosa è prioritario imparare nei "momenti" buchi. Ma purtroppo vige un individualismo esasperato per cui troppe software-house sono in realtà agenzie di "caporalato" per professionisti (sic!) informatici.
Sull' utilità del team, spero di spiegarmi meglio rimandado a questo post di Jurgen Appelo.

PS. per quanto riguarda la mia situazione lavorativa ora sono in un'azienda di cui sono l'unico dipendente!
In due mesi ho affrontato LabView (ero CLAD, ma scaduta del 2009) Il C++ con wxWidgets, il BPMN (mai conosciuto prima) di cui ho valutato diversi tools ed altro...