Per la seconda
volta mi accingo a fare una specie di recensione ad un libro scritto
da una persona amica. L'altra recensione è qui.
Oltre
la curiosità di leggere quanto Gian Mario Veneziano ha scritto, ero
interessato anche per il fatto che qualche anno fa mi ero messo a
rileggere “I Promessi Sposi” e a tirarne fuori un mio commento.
La differenza sostanziale col mio commento è che rifacendomi a
quanto dice Manzoni stesso nel capitolo 27, “[...]ma siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiam supporre
che quest’opera non possa esser letta se non da ignoranti, [...]” io ho fatto una
lettura sostanzialmente da “ignorante” - da un punto di vista
letterario - per finire, tra una battuta cretina e aneddoti vari, in
una lettura sostanzialmente in linea a quello che Luigi Einaudi
diceva del romanzo. Peccato non aver letto Einaudi prima, o forse
meglio così, sono stato più “dësgenà”
Per tornare al
libro di Veneziano, invece l'autore è tutt'altro che ignorante,
perché Manzoni deve averlo spiegato alle scolaresche non so quante
volte in tanti anni di insegnamento.
Il libro è
composto di tre capitoli, ma il primo, quello dedicato ai Promessi
Sposi, occupa all'incirca il 70% del testo. Inoltre torna al romanzo
nel terzo capitolo, quanto parla della madre di Cecilia e di padre
Felice Casati. Molto interessante l'analisi della storia, molto
interessanti ed istruttivi i collegamenti filosofici e quelli
relativi alla biografia del Manzoni, che a me mancavano o almeno non
mi erano così noti.
Convengo con
l'autore a proposito della figura paterna, positiva nel padre
simbolico interpretato da padre Cristoforo nei confronti dei due
giovani, ma io ci metterei anche Federico Borromeo nei confronti
dell'Innominato, anche se per certi versi coetanei; per lo più
negativa nei padri carnali, padre di Ludovico, padre di Gertrude e io
ho notato un altro personaggio positivo, ma goffo nel ruolo di padre.
Belle le
spiegazioni della notte dell'Innominato e di Renzo che perdona don
Rodrigo dopo l'incontro con padre Cristoforo. Chissà quante volte le
avrà spiegate in classe! Spero che gli allievi fossero attenti. Io,
ai tempi dei Promessi Sposi avevo una professoressa che non valeva
una cicca.
Nella mia
disamina, quelle due scene topiche le ho saltate, ci sono già troppi
commenti e spiegazioni a cui non avrei saputo cosa aggiungere,
soffermandomi sulle scene successive, cioè l'Innominato ormai buono,
diventa manager del progetto “minimizzare i danni della calata dei
lanzichenecchi” e per la seconda ho focalizzato l'attenzione su cui
purtroppo spesso si sorvola -Veneziano l'ha solo posticipata - perché
incuneata tra due scene chiave, cioè quella del discorso di Felice
Casati, personaggio storicamente vissuto, come Federico Borromeo.
Condivido
abbastanza con l'autore che Manzoni non ha una lettura ideologica con
i buoni di qua ed i cattivi di là ed happy end finale, ma le persone
hanno la loro complessità e dinamica. (Nel mio sottotitolo parlo anche di Complex Systems tra le pagine del romanzo)
Non condivido però
il titolo scelto da Veneziano, a meno del fatto che possa essere esteso a tutti i
personaggi manzoniani, in primo luogo Renzo e Lucia, e anche a Manzoni stesso. Perché insieme a donna
Prassede e al conte Attilio (personaggio che Veneziano non cita) il
padre di Gertrude è uno dei pochi staticamente cattivi. Il suo
attimo di affetto nei confronti della figlia mi sembra quello del
padrone del cagnolino quando capisce che il cagnolino ha imparato a
non pisciare più in casa o gli riporta il bastoncino lanciato, non
certo perché ne riconosca il mistero del suo destino di essere
umano.
Gli altri capitoli
sono dedicati ad altre opere, di cui alcune ho una conoscenza scarsa
o nulla, quindi per me novità. Qualcosa da imparare.
L'altra opera che
conoscevo di cui Veneziano parla è “Cinque maggio”. Un'opera in
cui mi riconosco. Grave dirlo perché pensare di essere Napoleone è
un topos abbastanza frusto del pazzo. Ma io mi riconosco solo in due
punti. Ne riparlerò in seguito. Su uno però Veneziano offre
un'interpretazione mai sentita a scuola.
“Cadde la stanca
man” viene interpretato
“Il non saper
scrivere le proprie memorie è simbolo dell'incapacità di Napoleone
di cogliere il significato ultimo della sua esperienza di uomo e di
condottiero...”
Per me invece,
quando mi sono trovato quasi sessantenne in cerca di altre
occupazioni, nello scrivere il CV a volte mi cadeva la stanca man. Ma
di questo ne riparlerò spero entro il 5 maggio.