lunedì 22 giugno 2020

La Nascita di una Canzone


In un post precedente avevo descritto la composizione di una canzone come “progetto”.
In questo intervento vorrei descriverlo da un punto dal quel punto di vista che certuni potrebbero chiamare ispirazione

Sagra, sagra e altre sagre

Il termine sagra è un termine che richiama alla parola “sacro”. Generalmente si trattava di feste religiose, legate ai culti stagionali, poi cristianizzate in feste di santi, a cui dopo una parte più propriamente cultuale seguiva una parte “ludica”.
Molte sono le sagre di San Rocco, in vari paesi, anche perchè San Rocco ha il buon gusto di cadere in un periodo di ferie. Ho partecipato a molte Sagre di San Lorenzo a Clavais.
Sempre più spesso il lato “sacro” era saltato a piè pari: “La sagra del fugassin” di Borgio, della porchetta di Magliolo, ecc... sebbene fossero a volte gestite da gruppi parrocchiali e i soldi guadagnati devoluti ad opere missionarie. 
La più assurda delle sagre di cui ho visto lo striscione (ma non ci sono andato!) è stata “La tradizionale Sagra del Kiwi”. Io ricordo i primi kiwi quando ero già un ragazzo, sarà stato forse il 1970, e i kiwi, che erano una rarità, allora venivano chiamati “actinidia”. Che lunga tradizione!
Da qui un'ispirazione per il titolo

Tutto il mondo è uguale 1

Zio Franco, grande turista che negli anni 70 visitò ferire dopo ferie, tutte le regioni della Spagna e negli anni 80 tutte le regioni della Francia, negli anni 90 diceva che non glie ne importava nulla di andare nelle grandi città turistiche. "Tanto ci sono orchestrine andine con le penne da pellirossa, gruppi di turisti in coda per fare tutti le stesse foto, venditori di souvenir..." ed in effetti era vero. Ultimamente anche piazza Castello a Torino ha preso questo aspetto. Il clima che se ne respira, per i miei gusti, tutto sommato è divertente: non ha però senso dire “vado a Parigi, a Venezia, a Firenze” bisognerebbe dire "vado in un grande centro turistico” a vedere un certo tipo di paesaggio in cui il “monumentone” sullo sfondo, si chiami Notre Dame o Duomo di Milano o San Marco a Venezia..., è  irrilevante in sé. C'è ed è importante la sua presenza per interpretare la sua parte di oggetto decontestualizzato, come fosse un PDP11 (minicomputer fine anni 70, primi anni 80) in un pollaio.

Tutto il mondo è uguale 2

Sono dispiaciuto che mio figlio non abbia fatto esperienze Erasmus, ma per altri motivi di quello che ufficialmente si dice “così si conoscono persone di altre culture”. Per esperienza personale posso dire che anzi, quello forse è il modo per non conoscere gente diversa. C'è più distanza culturale tra due quartieri socialmente diversi della stessa città (tra la Crocetta e la Falchera Nuova) che tra i campus di due università a mille e più km di distanza

Raduza - Dnes v noci nad svety

Ho imparato a suonare per fisarmonica il brano di cui sopra. Abbastanza semplice come lavorio delle dita, ma interessante dal punto di vista dell'armonia. Ho provato a tradurre il testo con google translator: a parte alcuni risultati bizzarri, mi è sembrato che parlasse di una festa "pubblica", una specie di sagra, ma anche a vedere il modo di cantare della signora Letizia (immagino che il nome Raduza in intaliano corrisponda a Letiza, uno slavologo mi corregga pure) non mi sembra che la festa la rendesse proprio tanto lieta! Pensavo di usare la musica e metterci un testo in italiano di mia invenzione, ma per vari motivo ho desistito all'impresa

 

Rima in è tronca

Da un po' di anni il giorno dell'Assunta io (torinese) mi trovo ad Ovaro (UD) e vado a messa nella Pieve di Santa Maria di Gorto Ogni volta sento il canto "Da font de me anime"
 Un anno il celebrante ha fatto notare che nel testo del vangelo originale Elisabetta non dice, come nella traduzione italiana "il bambino ha esultato nel mio grembo", ma dice "ha danzato nel mio grembo" ed allora concludeva che i nostri magnificat sono spesso ieratici, mentre questo canto in 3/4 invita (il popolano) alla danza
.
Io mi sono insospettito alla rima Iavhè / con te, perchè non mi sembrava molto "popolare" chiamare Dio Iavhè. Ho poi scoperto che don Giuseppe Cargnello, morto alcuni anni fa, pievano della Pieve di Gorto ed etnomusicologo (a lui si devono raccolte di canti in rito partiarchino, ma questo è un altro discorso) aveva trovato la musica registrando tra i paesi ed aveva messo queste parole (primi anni 70)
Anche a me è piaciuto fare una rima in è tronca un po' strana. Forse ho esagerato perchè la ripeto due volte in ogni ritornello. 

Covid19

Durante il peggior periodo della pandemia, io ero molto connesso con le reti dei miei amici per tenerci compagnia (come non avevamo mai fatto nei periodi normali) e scambiarci testi che ritenevamo validi. A volte erano battute, a volte cose molto serie. 
Mi ha colpito molto la testimonianza di un signore che non conosco, ma era nella rete relazionale di uno nodo della mia rete, che era stato infettato dal virus. Ne era uscito, ma era stato parecchio tempo ricoverato ed aveva sofferto molto. Raccontava di come gli infermieri lo assistevano premurosamente e vedeva queste attenzioni come un segno della presenza di Dio su di lui (e magari gli infermieri non erano neanche “ufficialmente” praticanti...) E che cos'è un incontro più profondo di questo, in un non-luogo come un ospedale?

Riferimenti

Sebbene la musica fosse diversa, nel comporla il pensiero mi è volato ad “Innamorati a Milano” una vecchia canzone cantata da Ornella Vanoni, ma qui non si tratta solo dell'innamoramento con una persona, ma di una possibilità di incontro positivo, che può accadere ovunque.

sabato 13 giugno 2020

Esempio di Project Management: La composizione di una canzone.

Premessa 1: appartengo alla generazione cresciuta al tempo dei cantautori: verso i 16/17 anni in molti ci siamo cimentati nel comporre canzoni. A dire la verità io ho smesso verso i 30 anni, ma salvo un paio di volte non ho mai condiviso le mie creazioni. Le componevo nei “tempi morti”: mentalmente in autobus/treno e code varie; cantando se ero da solo. Mai provato a scriverle. Recentemente invece mi divertivo a fare canzoni bistrattando e piemontesizzando canzoni “importanti”. In rete si hanno, purtroppo mal registrati, alcuni esempi: Long May you run di Neil Young diventata Cor Nen, Va Pian (titolo di una canzone di Gipo Farassino) e the times they are a-changin' di Bob Dylan in cui mi divertivo nella polisemia piemontese della parola “banca”.
Premessa 2: in questa fase parlerò solo del lato “project management” e non del lato “ispirazione” genesi del significato del testo / messaggio a cui forse dedicherò un intervento successivo.

Il pensionato in lockdown ha deciso di riprovare a comporre una canzone.


E da bravo PM comincia subito con una WBS.
Prima la musica o le parole? Ho ascoltato un intervista a Lisandro Aristimuño e se non ho frainteso (parlavano in spagnolo) a questa domanda rispose “Il posto dove è ambientata la canzone, questo vincola sia musica sia le parole”
 In effetti quando inventavo le canzoni spesso partivo da un posto “Punti verdi” era un parco (nella Torino anni 75/80 si tenevano interessanti spettacoli estivi nei parchi), “Scimmie” era dentro una stampa fine ottocento, “I maiali mi osservano” era in coda in autostrada Torino-Piacenza dietro ad un camion che trasporta maiali... e così per altre che ho quasi dimenticato. Ma questa... eh la definizione del luogo in questo caso era veramente un paradosso. Paradosso da cui sono partito.
Musica:
 in che tempo farla? Per risponderere a questa domanda sono partito dalle parole, ancora quasi nulle, ma con un abbozzo di ritornello, che mi ha fatto scegliere un tempo pari. Ho scelto poi i 2/4 per poterlo rendere ballabile come “scottish”.
In che tonalità: maggiore o minore? Gran parte dei brani folk del mio repertorio (occitano, polke, “Pakai”..) sono in maggiore, ma ho recentemente trovato interessanti balli in minore: lo scottish impaire di Gerard Godon, Mazurke a anche Scottisch che usano accordi in minore e maggiore. Anche qui le parole sono intervenute per orientare la musica: anche se non le avevo ancora bene in mente (e non penso di averle in mente perfettamente neanche adesso) era chiaro che la strofa doveva esprimere la situazione “irreale” “assurda” e il ritornello invece la parte di “soluzione positiva”, quindi nella strofa ha prevalso il minore e nel ritornello il passagio al maggiore da un senso di "rischiaramento". 

Il modello della WBS non ha funzionato: parole e musica non si sono dimostrati due work package separabili.

Parole: 
Fatto il ritornello, una frase sola, ripetuta due volte, poi ho pensato che ogni ripetizione del ritornello un piccolo cambiamento (una parola) mantenendo costante il senso.
 Strofa fatta la prima strofa, fatta la musica su questa, le altre strofe avrebbero dovuto adattarsi alla nusica, come in un letto di Procuste.

Ora tocca scriverela. Operazione mai fatta. Preso un pentagramma carta e penna, ma ho pensato che un editor musicale sarebbe stato meglio perchè mi avrebbe permesso di sentire quello che scrivevo. Dopo alcuni tentativi la scelta è caduta su MuseScore
Ammetto che non mi è stato molto difficile capire l'altezza dei suoni ma non riesco a dare veramente il ritmo che ho in mente. Alcune note mi sembrano troppo lunghe, altre troppo brevi.

L'editor musicale mi ha anche permesso di scrivere il testo vicino alle note. Invece avendo scelto come strumento “Fisarmonica” mi ha costretto a scrivere la mano sinistra come nota/accordo, così poi quando lo sento viene fuori un effetto un_due che copre troppo il canto. Avrei preferito solo il canto/testo con una riga in cui segnare la tonalità della battuta e basta come si trova in molti spartiti per fisarmonica, ma non l'ho trovato un simile template.

Ho terminato? No solo fatto un lavoro di sgrossatura. La creazione continua.

martedì 2 giugno 2020

2017 - Quasi una preveggenza


Rimettendo a posto i file sul computer ho trovato una lettera che avevo scritto ad un amico che collaborava al Meeting per l'amicizia fra i popoli edizione 2017 il cui titiolo era

Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo


Titolo che mi lasciò piuttosto di stucco. Diedi all'amico questo testo, chiedendogli di farlo avere ai responsabili del meeting

Dopo alcuni episodi, dal crollo del ponte Morandi, al Covid-19, rileggere quanto scrivevo fa uan certa impressione. 

La rendo pubblica sperando in commenti.

Cari amici,
quando ho visto il titolo del prossimo meeting sono rimasto piuttosto sconvolto. Non riporto esattamente la mia esclamazione, perchè probabilmente non capite il piemontese, ma se lo capiste non sarebbe molto fine.
Ovviamente non mi riferisco a mio padre in persona, ma ai “padri”: alla generazione precedente, con l'ovvio limite che non tutti i coetanei condividono gli stessi atteggiamenti e che fenomeni analoghi emergono spesso sfasati nel tempo.

Che cosa ci hanno lasciato, questi padri? Il dato in prima battuta più evidente è un debito pazzesco. In Italia il debito è debito pubblico, in molte altre nazioni il debito è più suddiviso tra pubblico e privati.
Dal debito pubblico io ne sono in qualche modo penalizzato: ho sessant'anni, quarantuno di contributi previdenziali, ho perso il lavoro e ciò non mi basta per andare in pensione: la generazione precedente accedeva alla pensione con molti meno anni di contributi, e soprattutto i loro contributi non incidevano tanto sulla loro paga.

In secondo luogo penso ai danni ambientali, di cui solo a partire dalla fine degli anni settanta, cioè dall'affacciarsi della mia generazione, si è preso coscienza e tra molte contraddizioni, oggi si sta pagando per rimediare a certi guasti e si evitano tecnologie particolarmente inquinanti. Con tutti i limiti e le contraddizioni, va bene, ma una maggiore sensibilità ora c'è.
Poi, non sono un architetto, ma basta sfogliare la cronaca locale, per rendersi conto di quante strutture (scuole, case popolari, ponti...) costruiti negli anni '60 e '70 ora siano gravemente malandate, mentre edifici degli inizi del novecento o forse anche prima reggano meglio gli oltraggi del tempo. Per non parlare dell'amianto: una sede dell'Università di Torino, quella costruita appunto negli anni '60 , recentemente è stata chiusa a lungo per questo motivo.

Non mi dilungo in altri dettagli prosaici. Mi sembra che quella fosse la generazione sognata da John Lennon nella canzone Imagine, sebbene lui la auspicasse per il futuro: “people living for today”. Una generazione che ha costruito molto, in tutti i sensi, ma senza porsi il problema della sostenibilità nel lungo periodo, o meglio, dell'ereditabilità di quello che andava facendo.

Personalmente la cosa che mi aveva sconvolto di più nella mia gioventù, che posso dire durò grosso modo dal 1970 al 1980, era quanto i “padri” sollecitassero ad una grande attenzione al conseguimento immediato di risultati, ma in qualche modo vietassero o almeno sostenessero l'irrilenvanza della ricerca di significati. Era la generazione che aveva vissuto la guerra quando erano ragazzini ed aveva affrontato la gioventù nel periodo della ricostruzione post-bellica. Una ricostruzione che fu per molti legata ad un lavoro di tipo fordista: andava loro benissimo essere ingranaggi di una grande macchina, fare azioni in un flusso di cui sfuggiva la logica, passare otto ore senza senso (otto perchè a loro gli straordinari venivano pagati!) perchè il senso stava nel progredire: dall'uscire dalla fame al comprasi la casa, dalla casa alla vespa dalla vespa alla cinquecento, alle vacanze al mare, allo sciare d'inverno... oppure nella carriera: nel passare vice capo-gruppo e poi a capo-guppo e poi a vice capo-settore a capo-settore ed altri microgradini della scala aziendale, che gratificavano la persona per l'insulsaggine delle otto ore e davano ancor più opportunità alla via consumista. Ma questo approccio, basato sulle cosiddette motivazioni estrinseche, è evidentemente insostenibile!

Nella mia ricerca spasmodica di senso ricordo quanto inseguissi, per usare una terminologia sentita dire dal psicoterapeuta Claudio Risè, dei “padri simbolici”: tutte le voci che in qualche modo erano dissonanti con l'ideologia dell'american way of life. Innanzitutto le letture: a quindici anni leggevo Vance Packard, a sedici Ivan Illich. Con i gruppi di ispirazione marxista - nella mia scuola era presente Lotta Continua e il bibliotecario era Marco Donat-Cattin - mi trovavano in sintonia per quanto riguarda la “pars destruens”, cioè nel riscontrare inadeguato il “sistema” ma mi sembravano scarsi nella ricerca di un significato. Insomma, per me erano troppo “moderati”, troppo poco radicalmente alternativi. Ero affascinato anche dalle religioni dell'oriente, ma la bibliteca del Liceo era poco fornita su quel tema.

Sia nel mio caso, sia per molti dei coetanei che frequentavo, la ricerca di un “significato” ed il tentativo di rischiare per seguirlo era per lo più osteggiato dalle famiglie, indipendentemente dal quale fosse questo “significato” ed indipendentemente dall'etichetta ideologica-culturale delle famiglie.
Ho letto di recente un giudizio del già citato Risè sul 68 – che come ho detto all'inizio per me è cominciato dal 1970 con il liceo.
“Il ‘68, che si è a volte autopresentato come rivolta contro il padre, è stato invece, a livello profondo, anche una sorta di grido di aiuto verso il padre, affinché questi smettesse di crogiolarsi nell’autocontemplazione narcisistica già imperante nell’Occidente secolarizzato e si facesse interprete della necessità di “liberazione” dei giovani dall’ideologia della soddisfazione del bisogno che si intuiva già imperante allora e ancor più nei decenni a venire. Questo richiamo non fu naturalmente accolto da padri già compromessi, anche moralmente e culturalmente, dall’edonismo di massa. La società dei consumi e delle pulsioni fu anzi ulteriormente rafforzata, coinvolgendovi il più possibile anche i nuovi ribelli e decapitando le loro spinte ideali e potenzialità spirituali. Capitalismo edonista e burocrazie politiche marxiste si impegnarono con successo a far naufragare nell’opulenza e nell’immagine la spinta ideale di un’intera generazione, peraltro già confusa di suo.” Quasi una mia biografia.

Salto un episodio drammatico, per non essere troppo autobiografico, ma superai l'idea del suicidio causata da quel'episodio, uccidendo mentalmente il mondo: mi buttai nella lettura di tutti i testi di futurologi catastrofisti che trovavo, che allora si chiamavano per esempio Roberto Vacca, Aurelio Peccei ed il Rapporto Meadows. Su questo ci torno più avanti.

Il caso, o meglio Dio che guida anche il caso, volle che incontrassi dei figli di un “padre simbolico” che testimoniava la presenza di un significato: conobbi persone che seguivano don Giussani. Ricordo ancora l'emozione di quando lessi che biasimava un testo di letteratura in cui si riteneva che le tematiche di Leopardi fossero “indiscriminata velleità riflessiva degli adolescenti” mentre don Giussani le riteneva fondamentali, o quando lo sentii ripetere quello che avevo già sentito citare nel Vangelo, “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?” ma con un accento tale che mi fece decidere “Questa è la strada da seguire!”.
Non che le scelte politiche e le analisi sociologiche di CL mi sembrassero sempre azzeccatissime (anzi!) ma il “punto fondamentale”, il “granello di senape da cui lasciare crescere l'albero” era quello giusto.

Oggi, citando Papa Francesco, si dice che “non siamo in un epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d'epoca”. Giustissimo, ma è come se le premesse ci fossero già state tutte. Nessuna delle previsioni dei futurologi catastrofisti che avevo letto da ragazzo si è poi verificata così come era stata predetta, ma era ovvio che la costruzione, peraltro distruttiva di quello che precedeva, fatta dai “living for today” non avrebbe potuto durare.

Paradossalmente, questi padri che si limitavano a far figli ma non eredi, che innescavano “bombe a orologeria” ci hanno involontariamente lasciato un'eredità, cioè un compito. Come in questo periodo di terremoti in Italia, ci rendiamo conto della bellezza di certi borghi, per lo più sconosciuti, solo al crollo degli edifici che manifestavano tale bellezza, così al crollo che vediamo di tutta una serie di evidenze e modalità di relazioni, occorre scoprire il granello di senape, in dotazione di “padri simbolici” che si muovevano contro-corrente, come fiumi carsici o meglio, usando l'immagine di Papa Francesco, in periferia. Mi auguro che il Meeting ci possa aiutare in questo.