"Ah! la generazione dei nostri figli sarà la prima che vedrà diminuire il proprio benessere dopo diverse generazioni in cui era sempre aumentato."
Questo luogo comune, degno di essere citato nelle raccolta che compare ogni tanto su "Il Foglio", nel mio caso è errato, perchè per quanto riguarda le condizioni di vita, io, laureato, sto molto peggio di mio padre, diplomato. Non mi dilungo su questo. Ricordo che una volta, una delle prime che sentii dire questo luogo comune, dissi: "No, io li ritengo più fortunati: non dovranno assecondare le ambizioni piccolo-borghesi dei nostri genitori". Mentre dicevo questo pensavo alla mia situazione personale, non pensavo di dire una cosa molto più seria che ora mi accingo ad analizzare.
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Riferendomi al libro "Intrinsic Motivation at Work" di Kenneth W Thomas, mia lettura estiva, il lavoro della precedente generazione era un lavoro sostanzialmente alienante: una piccola elite di lavoratori (dirigenza) aveva un visione del business, definiva le attività specifiche in modo dettaglio, le assegnava ai lavoratori il cui compito era quello realizzare quanto previsto minimizzando “l’errore umano”. Questo era una forma di alienazione, ma per molti della generazione torinese negli anni 60 non era un problema. Il lavoro era il sostentamento per “il tempo libero”, che per loro veniva considerata la “vera vita”. Il tempo di questa vera vita era abbastanza alto (considerando anche che sono andati in pensione presto) e le retribuzioni piuttosto consistenti, grazie anche alle lotte sindacali.
Le motivazioni erano del tutto estrinseche, ed
anche il maggior impegno sul lavoro era legato a motivazioni
estrinseche. Le piramidi aziendali erano lunghissime per permettere
tante piccole promozioni. Esisteva una spece di tabella non scritta,
ma evidente nella mente del torinese medio, che legava il modello di
auto (ovviamente FIAT) al grado aziendale: chi sceglieva un’auto di
livello maggiore era considerato uno sbruffone (blagoeur), chi di livello minore
un tirchio (rancin).
Così era Torino, ma al di là del folclore
locale, questo era il modello dell’occidente industrializzato.
Facevano eccezione i professionisti, artisti, artigiani... poca
gente.
Oggi la “globalizzazione”
ha fatto saltare questo paradigma attaccandolo su due fronti.
- Primo: la sostenibilità economica che è sotto gli occhi di tutti (ma ci torno).
- Secondo: la complessità, su cui vorrei soffermarmi.
E’ sempre più difficile che un “capo”
riesca a pianificare, dettagliare, specificare tutte le operazioni, e
questo non solo nei contesti dove vi sono tecnologie in continua
evoluzione e “germinazione” per cui chi non è operativo (capo)
tende ad essere obsoleto (es: informatica) Questo vale anche per
contesti meno “colti”. Immaginiamo la commessa del centro
comerciale: non si può avere un tabellario a con le risposte da dare
alle possibili domande dei clienti, moltiplicate per il loro stato
d’animo, contesto culturale... eppure la sensazione che la commessa
ti consideri, vale più di una scheda punti per fidelizzare il
cliente!
I
“posti di lavoro” di questo genere, a tutti i livelli, stanno
diventando maggioritari rispetto ai posti di lavoro “fordisti”.
Il lavoratore quindi deve essere orientato,
piuttosto che da una se di operazioni da svolgere, da degli scopi
da raggiungere: la sua cultura, quella dei colleghi, le
best-pratices... determinano le azioni. Le capacità non saranno solo
più quelle di applicarsi alle attività che qualcun'altro ha
definito, ma anche “scegliere” le attività che avvicinano allo
scopo pre-definito.
Il grande baratto di cui parlavo nel titolo sarebbe mettere insieme queste due sfide per (ah! che frase trita!) trasformare il problema in opportunità.
Il grande baratto di cui parlavo nel titolo sarebbe mettere insieme queste due sfide per (ah! che frase trita!) trasformare il problema in opportunità.
Ora nel modello “fordista”
o, per dirla con Kenneth W.Thomas della compliance era c’erano solo
motivazioni estrinseche. Queste producono un’escalation:
Il
giorno X ti compravi la 500 vedevi questo fatto come un dato positivo (motivazione estrinseca data dal lavoro). Se
dopo un po’ di tempo, tu non avessi potuto ricomprarla, vedevi la
mancanza dell’auto come una negatività; cambiarla con un’altra
uguale non ti avrebbe dato lo stesso senso di positività di quando l’avevi
presa la prima volta, ma di normalità: per sentire una motivazione
positiva, dovevi prenderti almeno un 850! Come nelle dipendenze da
droghe o farmaci, che non solo si deve prendere la dose giornaliera, ma
aumentare sempre la dose.
Questa “escalation” ha generato:
- Il cosiddetto consumismo, strettamente correlato con una società delle motivazioni estrinseche.
- la superstizione del progresso o sviluppo o crescita, dipende dagli autori, e la credenza che le generazioni future dovrebbero “stare meglio” delle passate.
Quando Serge Latouche (personaggio di cui non
condivido il pensiero, ma di cui alcuni spunti non dovrebbero essere
sottovalutati) parla di una decrescita felice ho molti dubbi.
Ma se si passasse ad un paradigma di
motivazioni intriseche, la "felicità" sarebbe possibile anche in assenza di un escalation consumista. Escalation che nel tempo si è dimostrata non sostenibile.
Obiezione: ma senza consumismo non ci sarebbe crescita quindi neanche lavoro quindi neanche motivazioni intrinseche. Contro-obiezione: la crescita potrebbe benissimo essere non-consumista: meglio avere uno screening preventivo sulla salute, meglio avere cure adeguate, meglio poter conoscere lingue, fare sport... che comprare l'ultimo modello dell'ultimo gadget di moda?
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