mercoledì 4 luglio 2012

Zavorre: Superstizione: i sacrifici.

Come ho già detto in un mio precedente post, definisco la superstizione nel seguente modo: Un gruppo organizzato, in certo ambiente, impara che alcuni atteggiamenti, azioni, accorgimenti, sono efficaci per fronteggiare certi problemi ed ottenere certi risultati. Il contesto cambia, ma le procedure rimangono in vigore e si rivelano inefficaci quando non dannose. La superstizione è l'intervallo di tempo trascorso dal cambiamento del contesto che inficia l'utilità delle procedure.
Una superstizione che sempre i politici o le classi al potere usano, da che io mi ricordi è "fare sacrifici". Oggi in particolare, questa metafora viene usata molto spesso.
Premesso: come ho anche esplicitato in questo post, e si può evincere dalla lettura di molti altri, io attribuisco una grande importanza al fattore religioso; ritengo che le azioni e gli atteggiamenti della vita pratica siano molto connesse con la propria posizione religiosa. Appunto per questo l' uso di un termine religioso (sacrificio) a sproposito, ha per me un sapore molto sgradevole.
Al tempo del paganesimo per ottenere la prosperità dei campi e la fecondità degli armenti si facevano sacrifici agli dei. Allo stesso modo nell'antica Roma si facevano sacrifici agli dei per la salus della patria.
Ma questo legame politica-sacrificio pensavo che la cultura europea lo avesse definitivamente rigettato nel 426 d.C. Cioè non si esclude che i credenti possano invocare l'aiuto del divino, ma appunto chiederlo, non attuare delle procedure (sacrifici) per fare sì di ottenerlo.
Nel 426 d.C. fu formalizzata l'inutilità dei sacrifici. L'episodio fu l'invasione dei Goti che arrivarono a distruggere Roma. La vecchia classe dirigente pagana, accusava gli "atei" cristiani di aver lasciato perdere l'abitudine di sacrificare agli dei e con questo attirarsi tali sciagure. Sorsero diverse diatribe su questo argomento, in particolare mi piace citare Agostino che risponde in modo razionale a tali obiezioni. In particolare nella "Città di Dio" cap V par 12, analizza l'ascesa di Roma che dipende dalla forma mentis del popolo romano (amore per la propria libertà, desiderio di gloria,...) e non dalla protezione di qualche nume.
Invece oggi si parla ancora di "fare sacrifici" invece di "coltivare le virtù". Più di 1500 anni sprecati?
(II parte)
Non necessariamente. Sarebbe un'idiozia fare il "bilancio della storia" in poche righe di un post, ma sta di fatto che da un po' di tempo sembra essere tornati a prima del 426 d.C.
Ma qual è la differenza tra "fare sacrifici" e "coltivare la virtù" ? Nel fare sacrifici il popolo "delega" ad una casta ristretta (quella sacerdotale, oggi i "tecnici" o "esperti" ) le sue funzioni e si aliena, come se dovesse dipendere da circostanze esterne che non dipendono da lui. Nel coltivare la virtù invece ognuno deve guardare se stesso, capire cosa fa, giocarsi nelle circostanze della vita: la cosa richiederà sicuramente un impegno maggiore, privazioni, fatica (chiamiamoli anche questi, se vogliamo, sacrifici) ma diventa protagonista della sua vita. Insomma, "la libertà è partecipazione"!
Che cosa servirà di più per "uscire dalla crisi"? La risposta mi sembra facile, ma probabilmente la "casta del tempio" in questo periodo è molto potente.


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